Omelia  per la professione perpetua di suor Veronica e suor Monica, della Congregazione delle Suore Missionarie della passione
Descrizione

Villanova S. Caterina, 3 settembre 2022

Eccezionalità di un avvenimento

La celebrazione cui stiamo partecipando ha indubbiamente, di questi tempi, le caratteristiche dell’eccezionalità. Sappiamo infatti che, se la crisi delle vocazioni sacerdotali è seria, ancora di più lo è quella delle vocazioni religiose femminili; e che dire dei matrimoni? Tutto testimonia di un’epoca restia agli impegni definitivi, paurosa nei confronti dei “sì” senza possibilità di ritrattazione.

Ma noi, questa sera, abbiamo fra noi due giovani donne, Suor Veronica e Suor Monica, ambedue di Villanova, che esprimono il loro “Eccomi!” definitivo con la professione perpetua e si consacrano a Dio mediante la professione dei consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza secondo le Costituzioni della Congregazione delle Missionarie della passione di nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia parla di spose che vogliono seguire Cristo come loro sposo e che intendono “perseverare nel loro proposito fino alla morte”: qui c’è tutta la grandezza di chi sceglie uno sposo che non si può vedere fisicamente né incontrare; e c’è tutta la fortuna, o il merito, di chi sceglie uno sposo perfetto, fedele, amorevole, misericordioso, sapiente, buono, incorruttibile dal tempo, divino.

 

Una scelta in controtendenza

In ogni caso, la loro è indubbiamente una scelta in controtendenza. Basta guardare il mondo delle loro coetanee, così spesso alla ricerca di ricchezza, benessere, ricercatezza, lusso, e magari di condizioni di vita costantemente aperte al nuovo, anche quando hanno l’apparenza dell’impegno non provvisorio. Suor Monica e Suor Veronica, invece, abbracciano la povertà, ovvero la sobrietà di vita.

Le loro coetanee perseguono, più o meno consciamente, varie forme di edonismo, e loro, invece, la castità; nella società dell’affermazione del proprio “ego”, loro scelgono l’obbedienza.

Spontanea sorge la domanda: Perché? Per chi? Al fondo, c’è un'unica, vera ragione: “seguire più da vicino le orme di Cristo, povero, casto e obbediente” e “vivere più fedelmente il Vangelo”.

L’unica vera motivazione è Cristo. L’alfa e l’omega di questa scelta, il punto di partenza e di arrivo, la causa e il fine è Cristo, come sposo, maestro, modello.

 

A chi rendere grazie?

Ovviamente, noi esprimiamo ammirazione per questa scelta,  e sono certo anche chi non la capisce. Suor Veronica e suor Monica sanno però anche che in questo momento la lode e il ringraziamento sono anzitutto per Dio: è lui che ha chiamato, è il suo Spirito che ha suggerito e guidato i passi della decisione. Uso le loro parole: “La nostra consacrazione è la risposta a un amore più grande, è il desiderio di donare ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto dal Signore”. Il Vangelo lo dice con chiarezza: “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16). L’iniziativa prima è di Dio che - sono sempre loro parole -  non ha bisogno di persone “capaci” ma di persone disponibili.

All’uomo, o alla donna, spetta l’onere meraviglioso e difficile della risposta. E, su questo tema, dire “donna” è dire Maria, esempio e modello di docilità e sollecitudine nell’assenso al progetto di Dio su di lei.

 

La suggestione mariana, però, rende facile, quasi naturale pensare anche al “Magnificat”, dove a fronte di Elisabetta che la esalta “perché ha creduto”, Maria risponde lodando Dio, che “ha guardato all’umiltà della sua serva” e “che grandi cose ha fatto in lei”: anche il paradigma dell’obbedienza e dell’adesione alla volontà di Dio riconosce che il primato, nelle storie di vocazione, spetta a Dio stesso. Lui sceglie, lui offre un senso alle nostre vite, lui offre un disegno realizzando il quale realizziamo la nostra umanità, la nostra natura, ciò per cui egli ci ha creati.

Discorso dal quale, lo dico tangenzialmente, discende la enorme responsabilità di chi a quel disegno si oppone, rifiutandolo; ma anche di chi su quel disegno forza la mano, in qualunque direzione ciò avvenga, intromettendosi senza rispetto nel delicato e misterioso rapporto fra Creatore e creatura. E sulla violenza arrecata in questo campo, rimane insuperato il magistero di Manzoni, che da par suo mostra, nella vicenda della Monaca di Monza, quali danni sul piano dell’inquietudine, dell’insoddisfazione e poi dei comportamenti scellerati possano derivare da un intervento manipolatorio su una giovane coscienza.

 

Condizioni di futura autenticità

Ma, ora che la decisione di Suor Monica e Suor Veronica diviene perpetua, come potranno queste due vite consacrate sostenersi nel loro cammino così particolare e in questo mondo così difficile?

Abbiamo ascoltato il Vangelo di Giovanni e il punto del grande discorso di Gesù quando usa la nota immagine della vite e dei tralci: “Io sono la vite e il Padre mio l’agricoltore”, dice Gesù; e poi: “Io sono la vite voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla… Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi chiedete quel che volete e vi sarà dato... Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (cf Gv 15, 1-11).

Ricorre l’idea del “rimanere”, insita nell’immagine del legame tra la vite e i tralci come garanzia di fecondità. Al contrario: chi non rimane diventa un tralcio secco, da gettare, un tralcio che non porta frutto.

 

Ne traggo tre condizioni di futura autenticità per Suor Monica e Suor Veronica.

 

Rimanere in Cristo, lo Sposo.

“Rimanete in me”, dice loro Gesù. Rimanete unite alla vite, essendone voi i tralci.

La prima condizione è rimanere unite “allo sposo”, Cristo.

Il tempo logora anche le cose più belle, gli affanni della vita distolgono, distraggono dalle ragioni originarie dell’amore. Lo vediamo fin troppo bene nei matrimoni fra l’uomo e la donna: il segreto per mantenerli vitali e dotati di prospettive è la costante attenzione all’altro; lo stare con l’altro cercandone sempre le caratteristiche che hanno indotto a sceglierlo, confermando le ragioni per cui si è deciso di amarlo e sposarlo; il non dare mai nulla per scontato e banale.

Così, anche in questo “matrimonio mistico” sarà fondamentale lo “stare” insieme a Cristo, lo sposo, quello “stare” che alimenta l’amore, la conoscenza, la gioia dell’opzione originaria. E stare con Cristo significa ascoltare la sua Parola, e rispondere, ovvero dialogare, pregare. Senza mai ritenerlo abbastanza noto, compreso, vissuto, amato.

 

 

Rimanere unite, nella comunità

La seconda condizione è l’unità fra voi, care suore. La vita consacrata che abbracciate contempla anche come elemento imprescindibile l’esperienza della comunità, prova concreta di fraternità. Vivrete l’amore fraterno, il quale, come mostrano le vicende di molte famiglie, contempla anche grandi fatiche, visto che deve assimilare e armonizzare personalità e inclinazioni spesso molto diverse. Senza contare la sottile tentazione che spesso nasce in un contesto simile: quella di usare la comunità, sfruttare la comunità senza troppo contribuire alla sua vita; senza contare la tentazione di essere in comunità con il corpo, ma altrove con il cuore e con la mente.

 

Indubbiamente, però, vivere l’esperienza della comunità è anche un aiuto, pone al riparo dai rischi della solitudine, consigliera pericolosa durante un cammino così controcorrente, come s’è detto prima. Fate dunque tesoro dell’opportunità che vi è concessa e cercate di non svilirla dentro dinamiche facili a crearsi ove non vi sia consapevolezza del grande e difficile dono che la vita comunitaria rappresenta.

Come già ho avuto modo di ricordare in altra occasione, nella vita religiosa in senso stretto, la comunità e la conseguente vita fraterna sono un elemento prezioso della propria identità e della vocazione abbracciata; così come la non accettazione delle dinamiche, degli impegni, delle regole della vita comune è il segno di un’altra vocazione o dell’aver smarrito l’ideale iniziale.

 

Rimanere unite anche “alle radici”

Terza e ultima condizione: rimanere unite alle “radici”, ovvero al terreno da cui provenite. Intendo la gente, la comunità, la parrocchia. Certo, anche qui non è facile contemperare la “separazione” che la scelta richiede con il “rimanere uniti”: vi saranno richieste doti di equilibrio che, di nuovo, solo una sana vita spirituale, nutrita dal rapporto con Cristo, potrà sviluppare al meglio. Cosa intendo?

 

La vostra scelta indubbiamente comporta una “separazione”, dalla famiglia, dagli amici, dalla comunità in senso ampio; ma guai se questo significasse un chiudersi degli orizzonti e delle attenzioni, un vivere ...“fuori” dal mondo.

La vostra vita è, infatti, anche offerta e preghiera per la Chiesa e per il mondo, per le famiglie della parrocchia, per la parrocchia stessa: uno sguardo costante e sollecito per ciò che sta “fuori” - i problemi del mondo e la vita concreta della gente - vi aiuterà a vivere il “dentro”, il vostro microcosmo, non come una bolla ovattata fuori dal tempo, ma come un luogo riposto e privilegiato da cui meglio amare ciò che lo circonda e che vi offrirà motivi di preghiera, ridimensionerà anche le fatiche della vita religiosa stessa e sarà il migliore stimolo al rinnovamento. Mi sia permessa un’immagine: il lievito non serve fuori dal pane; il pane dà una funzione e un senso al lievito.

 

Per una gioia piena

Chiudo con un ultimo riferimento al Vangelo. Gesù parla esplicitamente di “gioia”. Non la gioia banale sbandierata dalle pubblicità tutte bei panorami e bei sorrisi; la gioia, invece, caratterizzata come “sua” e destinata a essere “piena”.

Bene avete scritto: “Il sogno di Dio per ciascuno di noi è la felicità piena”.

Infatti così Gesù auspica: “la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena”. I due aggettivi sono fondamentali: esiste una gioia che è quella di Cristo, sua, data da lui, che in lui si origina e realizza e che non è la gioia comunemente intesa, come dicevo all’inizio; ed egli vuole che quella gioia, e non altra, produca la nostra nella pienezza, caratteristica così assente dalle gioie apparenti ed effimere dell’edonismo e del consumismo.

 

Ecco, Suor Monica, Suor Veronica e tutti noi, cristiani, dobbiamo cercare sempre la gioia di Cristo, perché solo così, finalmente, sapremo che cosa sia la gioia “piena”.

 

+ Egidio, vescovo

 

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